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Il futuro è molto aperto, e dipende da noi, da noi tutti. Dipende da ciò che voi e io e molti altri uomini [e donne] fanno e faranno, oggi, domani e dopodomani. E quello che noi facciamo e faremo dipende a sua volta dal nostro pensiero e dai nostri desideri, dalle nostre speranze e dai nostri timori. Dipende da come vediamo il mondo e da come valutiamo le possibilità del futuro che sono aperte. – Karl Popper

Il direttore scientifico dell’ASviS Enrico Giovannini, tra gli altri incarichi già ministro di Lavoro e Trasporti nonché presidente di ISTAT, decide di aprire con una responsabilizzante citazione di Karl Popper il suo keynote speech in occasione della 4. Giornata Nazionale delle Società Benefit, tenutasi al Palazzo Reale di Milano il 14 Marzo 2023 e organizzata da AssoBenefit.

Il riferimento di Giovannini all’agire come strumento di modellazione di ciò che ancora non esiste non è generico, ma precisamente circostanziato.

Punti di svolta epocali

Proprio come nel 1997, svela l’ex ministro, una suo preciso riscontro negativo ad una sollecitazione dell’allora Ministro del Tesoro Ciampi circa la capacità di ulteriore indebitamento del paese consentì all’Italia di essere ammessa alla moneta unica, così la posizione dell’Italia rispetto all’iniziativa “La Nostra Agenda Comune”, promossa dal segretario generale dell’ONU Guterres e che culminerà nell’evento Summit of the Future del 22-23 settembre 2024, segnerà un punto di svolta per il futuro del paese e, di riflesso, del continente e del pianeta.
E la posizione, le idee che la comunità italiana difenderà in quella sede non sembrano affatto scontate, visto il raffreddamento del multilateralismo che è in corso, come anche la rinegoziazione di molti punti salienti dell’Agenda 2030 (che è anche l’agenda della Commissione Europea) legati alla transizione della produzione e dei consumi, con i suoi risvolti sociali e ambientali. A questo si affianca la presidenza del G7 che l’Italia assumerà nel 2024.

Giovannini ricorda che la tentazione di “rifare recinti” deve tener conto del fatto che “tutto è interconnesso”, come argomentato nel rapporto del World Economic Forum sui rischi globali. Tre dunque i passaggi importanti in questo “tempo speciale”:
  1. un cambio delle metriche fondamentali dell’economia, per misurare ciò che è importante per le persone e il pianeta. Il paradigma basato sul PIL risalirebbe al 1944 come elaborazione degli Stati Uniti, incentrata sulla produzione, al fine di dimostrare la superiorità del modello capitalista su quello comunista;
  2. una maggiore attenzione alle generazioni future; che a sua volta si declinerebbe nella
  3. protezione e implementazione di global commons, o beni pubblici globali

L’intervento del direttore scientifico di ASviS si conclude con un appello alle persone presenti, fondatrici e collaboratrici di Società Benefit (abbreviato SB), a fare “un po’ di più della propria parte” per un cambiamento di passo. Ricorda la recente modifica costituzionale che introduce il concetto di “giustizia tra le generazioni” e propone, alle persone che rappresentano le aziende associate ad AssoBenefit, di impegnarsi a rispettare questo principio. La riforma riprende in parte il disegno di legge di Mauro del Barba, parlamentare e presidente di AssoBenefit, che chiudendo l’intervento di Giovannini inquadra il ruolo delle Società Benefit come soggetti che sentono appieno questa responsabilità, e rappresentano quindi una “cessione di sovranità” rispetto allo Stato, nel loro farsi carico dei beni pubblici come parte integrante del proprio operato e diventando quindi una componente importante di una democrazia liberale.

Tracciare la rotta

La riflessione esistenziale sul proprio ruolo e sul futuro da plasmare è in effetti al centro della giornata promossa da AssoBenefit. Nel suo intervento introduttivo, la vicepresidente Monica de Paoli ricorda il tema: tra Avanguardia e Regola: tracciamo la rotta per un futuro sostenibile in un contesto di grandi cambiamenti, tra la normativa europea che presto richiederà a molte aziende anche una due diligence sulla propria filiera e l’articolato mondo della finanza sostenibile.
Queste le attività principali di AssoBenefit: advocacy; attivazione di diverse partnership, tra cui quella con l’Ordine dei Commercialisti; partecipazione a più di 500 convegni; realizzazione di approfondimenti in favore degli associati (Impact talks, Benefit talks, incontri sulla corporate governance, studi su società esistenti e altre pubblicazioni; una nascente Academy). De Paoli segnala la crescita esponenziale avuta dal movimento e dall’associazione negli ultimi anni, che ha portato ad un nuovo modello di governance interno, caratterizzato dalla creazione di molte deleghe, nello spirito di partecipazione e interdipendenza che rappresenta un caposaldo del modello Benefit.

Del ruolo fondamentale delle imprese, e quelle Benefit in particolare, per affrontare alcune importanti sfide (inclusa quella meno gettonata della logistica), è convinta anche Alessia Capello, assessora del Comune di Milano allo Sviluppo Economico e Politiche del Lavoro. Tali sfide vanno affrontate con una coalizione tra le parti come “Impresa Paese”, sulla scorta del Patto per il Lavoro messo in atto dal Comune, tramite iniziative rispetto alle politiche attive e per colmare il divario tra domanda e offerta. Le imprese dovrebbero, secondo Capello, attuare il principio di sostenibilità e aiutare la Pubblica Amministrazione ad affrontare e governare i cambiamenti.

Il presidente Del Barba mette l’accento su come la Giornata non sia tanto un momento per parlare delle Società Benefit, ma piuttosto per guardare a dove stia andando il mondo, e di conseguenza ragionare sul ruolo delle imprese nel mondo. Porta l’esempio dell’ultimo incontro pre-pandemia a Firenze, dove il tema era la tassonomia degli investimenti, poi adottata dal quadro normativo europeo. Il focus verte quindi su quanto le Benefit stiano concorrendo, accanto a istituzioni, mercato, terzo settore ed altri attori, a raggiungere un modello di sviluppo sostenibile, accelerando un processo che pare troppo lento rispetto all’Agenda 2030.
Alla base della riflessione rimane il cambiamento di paradigma introdotto dalla novità della Società Benefit, la cui veste giuridica raddoppia l’impatto dell’attività d’impresa, all’interno però di una dinamica tradizionale in cui l’impresa viene percepita soltanto come soggetto passivo. E’ necessaria quindi una sistematizzazione dell’attività delle Benefit perché possano diventare protagoniste di un nuovo modello economico.

L’intensa giornata di studio si articola in sette sessioni, dedicate a delineare la fisionomia delle Benefit lungo diverse dimensioni: mercato e regolatori; passato, presente e futuro della forma giuridica; settori produttivi strategici; fotografia delle SB in Italia; identità e valutazione d’impatto; rapporto con i territori e gli enti no-profit; comunicazione e greenwashing.

La tensione tra mercato e regolamentazione

Nella prima sessione, Sergio Randazzo di Legance colloquia con i rappresentati di due aziende italiane: Andrea Vecci di Redo SGR, un fondo per gli investimenti immobiliari “nativo Benefit” partecipato da Fondazione Cariplo, CDP e altri, che si occupa di affordable housing in Lombardia; e Virginia Antonini di Reale Mutua, realtà assicurativa con 195 anni di storia che ha da poco affrontato il passaggio a SB.
Nel confronto emerge come il regolatore europeo, dopo aver affrontato il tema della sostenibilità rispetto a investimenti (con le tassonomie) e corporate (con i recenti obblighi di sustainability reporting), sta ora rivolgendo l’attenzione alle filiere di fornitura (con i futuri obblighi di due diligence). L’attenzione all’impatto sociale e ambientale, che prima per un’azienda era un “di più”, sta gradualmente diventando un obbligo, e presto contemplerà un profilo di responsabilità giuridica per gli stessi amministratori, oltre che per l’impresa. E’ naturale quindi che questi aspetti (che nelle società “tradizionali” vanno sotto la sigla ESG – Environmental, Social and Governance) rappresenteranno sempre di più un asset primario per le imprese, tanto che Vecci si auspica che il perseguimento dell’interesse pubblico sia considerato alla stregua di un reddito da contabilizzare. Fondamentale, e difficile, è in questo senso la misurazione.

Il quarto settore

Nel secondo panel rivolto al passato, presente e futuro normativo della forma Benefit, Paolo di Cesare di Nativa SB srl ripercorre con Margherita Bianchini di Assonime e Livia Ventura dell’Institute for Sustainability dell’Università di Cambridge le tappe del quarto settore nei diversi paesi. Viene ricordato l’articolo seminale di Heerad Sabeti, The For-Benefit Enterprise, apparso nel 2011 su Harvard Business Review. L’Italia, si nota, fu il primo stato nazionale, e il secondo organismo a livello mondiale dopo il Maryland ad introdurre, nel 2016, una legislazione che regolamentasse questa fattispecie.
Si mette l’accento sul fatto che la forma Benefit sia incentrata non tanto su obiettivi, ma su finalità ambientali e sociali.

Ventura passa poi in rassegna le differenze tra le varie normative nazionali che prevedono in qualche forma il modello Benefit. Non sono ancora molte, ma presenti in quasi tutti i continenti, con una nutrita rappresentanza in Sud America (Colombia, Ecuador, Perù, Uruguay), Nord America (molti stati USA, British Columbia, Porto Rico), Europa (Scozia, Francia, a breve Spagna) , e qualche esempio in Africa (Rwanda). Esistono, naturalmente, differenze nella legislazione, ma si sottolinea che la normativa italiana ha influenzato quella di molti paesi. Particolarmente interessante è il caso francese, dove gli aspetti Benefit sono governati da un comitato in cui è richiesta la partecipazione non solo del livello amministrativo e datoriale, ma anche dipendente.

Bianchini individua nella responsabilità giuridica la chiave del modello Benefit, e sostiene che la sfida non è più la narrativa ma la disciplina. Del resto, si nota, la normativa europea sta gradualmente incorporando molti degli aspetti propri dell’approccio Benefit (tassonomia degli investimenti, governance e, ora, catena del valore).

Il modello Benefit e i servizi nazionali strategici

Nella sessione successiva, Roberto Cociancich, Avvocato, dialoga con Stefano Besseghini, presidente di ARERA, e Francesca Mazzarella, direttore area strategie di Utilitalia.
Mazzarella non nasconde la scarsa penetrazione dell’approccio Benefit nel settore delle utilities, legata, probabilmente, anche all’azionariato diffuso.
Besseghini, essendo ARERA un osservatore privilegiato su diversi settori, rileva gradi di maturità differenti rispetto alle tematiche Benefit, specie quelle ambientali, maggiori nel comparto energetico. Nota poi che il settore idrico è stato vissuto in passato come meno impattante, mentre oggi si propone come sfida centrale, che deve essere vinta in due modi: cura delle risorse e investimenti, che comunque, fa notare, sono aumentati negli ultimi anni. Per quanto riguarda i rifiuti, nota la sperimentalità della regolamentazione italiana a livello europeo (accanto a quelle di Grecia e Portogallo) e la natura territoriale della tematica.

Un altro tema centrale è quello della potenziale contrapposizione di interesse tra il pubblico e altri stakeholder. Su questo fronte Besseghini sottolinea come la società abbia ormai imparato a riappropriarsi di alcuni desiderata (l’acqua come bene primario; i rifiuti come responsabilità individuale). Cita le comunità energetiche come esempio di risposta che rende la comunità protagonista di alcune scelte. Anche Cociancich auspica e intravede il passaggio del consumatore a curatore/cittadino, e la rendicontazione/trasparenza come alternativa alla lontanza/distanza dello stesso. Besseghini paragona le SB a democrazie immature, notando come il passaggio culturale abbia un costo. E’ necessario, quindi, renderlo semplice ed autoesplicativo, non producendo più report, ma piuttosto oggetti sintetici e facilmente comprensibili dalla maggior parte delle persone.
Mazzarella, infine, insiste sull’importanza della misurazione della baseline, sulla definizione di obiettivi e sulla verifica degli stessi, integrando piano industriale e piano di sostenibilità.

Benefit tra norma e cuore

Prima del momento di scambio informale rappresentato dalla pausa pranzo, il presidente del Barba e Francesco Mondora, CEO di Mondora srl SB e Impact & ESG officer di Teamsystem, si ricollegano alla discussione sulle utility citando il caso di Umbra Acque e della rete dei gestori idrici del veneto Viveracqua.
Del Barba e Mondora si collegano poi con Walter Link, CEO di NOW Partners, che presenta la piattaforma Future Economy Forum e il B for good innovators summit.
Mondora sottolinea, di Assobenefit, il modello associativistico a partecipazione attiva, dove anche delle azioni del consiglio direttivo verrà misurato l’impatto, e ricorda come sia necessario, rispetto alla norma, anche metterci il cuore e tenere una “postura” ben riconoscibile.

La fotografia delle SB italiane

Nella sessione seguente Francesca e Claudia Sanesi della CCIAA di Taranto presentano, assieme a Laura Gori di Way2Global srl SB, la nuova dashboard interattiva che permetterà di visualizzare numerosi dati ed effettuare ricerche mirate sulle SB italiane, inclusi settori di maggiore diffusione, oltre che dati sulle dimensioni e sul fatturato. Tra i dati presentati, si evidenziano un fatturato complessivo di circa 20 Mld di Euro per il 2021, il 40% delle società registrate con un fatturato inferiore o uguale a 250 mila Euro, una media di 50 addetti, e un peso delle società manifatturiere sul totale del 13%. Al momento lo strumento è ancora in fase di test e consultabile solo tramite gli uffici della CCIAA.

La centralità della misurazione d’impatto

Un’indagine “sociologica” apre il panel che vede la partecipazione, con la moderazione di Giulia Detomati di InVento Innovation Lab SB, di Nicoletta Alessi (Good Point srl SB), Irene Bengo (Tiresia – Politecnico di Milano) e Claudia Strasserra (Chief Reputation Officer e Impact manager di Bureau Veritas Italia SpA SB).
L’indagine di Good Point ha preso in considerazione 579 formulazioni di finalità benefit (la sezione dello statuto societario richiesta dalla normativa per la designazione di SB), arrivando a definire 5 profili d’impatto, o atteggiamenti prevalenti. Il primo profilo è definito committed to sustainability: aziende in evoluzione, guidate primariamente dal paradigma ESG; il secondo è quello dei change maker: aziende che hanno un problema di sostenibilità legato al proprio core business o all’industria di riferimento, che solitamente affrontano investimenti costosi, ma con ritorno; 3) impact driven: aziende nate specificamente per risolvere un problema specifico di grande impatto; 4) business with purpose: aziende di proprietà privata, ma con al cuore una finalità di pubblica utilità; 5) impact booster: imprese che fungono da leva, dedicandosi alla consulenza, all’incubazione, ai finanziamenti.

Partendo da questi risultati, Bengo identifica tre tipologie d’impatto crescente: addizionale, integrale, integrato o costitutivo. Ritiene che la pianificazione dell’impatto vada affrontata tanto seriamente quanto il budgeting, l’impatto rendicontato e reso dimostrabile, la valutazione eseguita con key performance indicators. Auspica che la misurazione diventi uno strumento decisionale, soprattutto negli ambiti della comunicazione, identitario e finanziario/transazionale; e che accanto agli standard ci siano anche metriche più sartoriali e dedicate alle peculiarità delle singole imprese.

Strassera fornisce un breve quadro dei passi intrapresi da Bureau Veritas, partendo dalle certificazioni, per documentare e comunicare le iniziative attuate sulla parità di genere. Alessi, infine, annuncia la costituzione di un gruppo di ricerca sulle SB.

Il rapporto con i territori

Importante è anche il rapporto con i territori, affrontato in una sessione moderata da Mauro del Barba, che ha visto la partecipazione di Giovanna Gregori (direttore esecutivo dell’Associazione Italiana delle Aziende Familiari – AIDAF), Alberto Anfossi (segretario generale della Fondazione Compagnia di San Paolo) e Sergio Urbani (direttore generale Fondazione Cariplo).

Gregori comunica che delle 256 imprese associate ad AIDAF, il 10-12% sono SB, molto al di sopra quindi della media nazionale. Sottolinea come, specie per l’attenzione agli aspetti sociali, l’impresa familiare sia “benefit in modo naturale”, tranne forse per il tema della purpose, e che le aziende associate firmano un codice etico. Lo statuto dell’associazione tratta temi come buone pratiche, sostenibilità, cultura e welfare.

Anfossi evidenzia l’interiorizzazione dell’Agenda 2030 da parte da parte della Fondazione, con tre obiettivi: cultura, persone e pianeta, e la creazione di una piattaforma per la conoscenza dei territori chiamata Data for Citizen Engagement. La Fondazione eroga soprattutto a no-profit, ma anche a imprese e cooperative sociali, con particolare attenzione alle startup tramite la Social Fair. Per il no profit, ritiene importante l’iniziativa Next Generation You, rivolta alla realizzazione di check-up organizzativi, piani di sviluppo e valutazione, anche della bancabilità.

Urbani cita l’esperienza dell’hub di innovazione Cariplo Factory e sottolinea la necessità di tarare gli strumenti finanziari e di fare rete per promuovere iniziative di promozione del territorio compartecipate, evidenziando come la complessità richieda anche competenze diversificate. Ricorda infine il progetto QB che si è occupato, a Milano, della povertà alimentare dell’infanzia.

Il rapporto tra SB, fondazioni, enti del terzo settore e imprese giovanili può portare a ricadute positive per tutto il territorio.

Il pericolo del greenwashing

L’ultimo pannello tematico verte sull’attualità del greenwashing nella comunicazione, e sugli antidoti.
Alessandra Bucci (JOIN Group Business Advisory SB) modera la discussione con Maria Cristina Ceresa (giornalista, Edizioni Green Planner Srl SB), Rossella Sobrero (esperta di comunicazione della sostenibilità), Arturo Leone e Paola Bologna (studio legale Bird &Bird).

Bologna e Leone richiamano gli aspetti normativi, ricordando che al momento non è in vigore alcuna normativa specifica sul greenwashing (che presto però entrerà in vigore sulla scorta delle nuove direttive EU), ma che la fattispecie può già rientrare nell’area della pratica commerciale scorretta, e richiamando i princìpi della comunicazione, tra cui la necessità di un claim relativizzato e circostanziato, e di uno screening delle prove a sostegno. Le SB, scegliendo tale status, assumono un onere in più e possono essere giudicate con maggiore severità.

Sobrero associa il tema del greenwashing a quelli altrettanto importanti del social washing e del pink washing, cui Ceresa aggiunge quelli di SDG washing ed ESG washing. Sobrero raccomanda, come antidoti al rischio, che lo storydoing sia maggiore dello storytelling, e che la pratica comunicativa sia tesa a coltivare una relazione, piuttosto che colpire un bersaglio, e di mostrare coerenza, concretezza e trasparenza. Ceresa insiste sulla formazione di tutti i collaboratori, di modo che possano rispondere adeguatamente alle domande dell’opinione pubblica.

Del Barba chiude la kermesse con alcuni messaggi: “sostenere la sostenibilità”, “lavorare molto sul comunicare”, “evitare il punto di arrivo”.

Interessiamoci alla rotta che vuole conciliare sviluppo e giustizia

A più di sette anni dall’introduzione della forma giuridica nell’ordinamento italiano, il movimento Benefit rappresenta una piattaforma matura che si interroga in maniera strutturale sul ruolo dell’impresa, affiancando in maniera imprescindibile alla finalità di beneficio economico quella di beneficio comune, declinato a molti livelli (sociale, ambientale, di governance e oltre).

I temi trattati, come si è potuto vedere in questo resoconto, lungi dall’essere astratti o idealistici, entrano nel vivo della quotidianità delle imprese che scelgono, nascendo o trasformandosi, di imboccare questa rotta.

Sarebbe una povertà non interessarsi alle esperienze e ai risultati che questo fiore all’occhiello del modo di fare impresa in Italia sta maturando, poiché rappresenta un approccio complementare, e più scalabile, a esperienze altrettanto valide e fondative della storia imprenditoriale italiana: la cooperazione, l’impresa familiare, l’impresa sociale e il terzo settore.

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Innovation by invidia

“Innovation by invidia”. Così il rappresentante di un’associazione di categoria sintetizza in uno slogan pungente il concetto per cui molti imprenditori si decidono a sposare un’innovazione solo quando vedono che qualche altro imprenditore di loro conoscenza è “finito sul giornale” per aver messo in atto una misura simile.

Se il meccanismo principale per cui le innovazioni si diffondono nel mondo delle imprese fosse davvero questo, ci sarebbe poco da stare allegri. O forse è più che naturale che il meccanismo sia proprio questo, tenendo conto dell’importanza che imitazione, emulazione e giudizio dei pari rivestono in ogni aspetto della nostra vita. Bisogna dunque tenerne conto.

Le considerazioni qui sopra vengono espresse il 28 Febbraio 2023 nella sede di Regione Lombardia a Bruxelles, nel contesto dell’evento Connecting Voices: Social Dialogue for Digital Skills and Smart Working, atto finale del progetto IRESDES 4.0.
L’acronimo sta per Industrial Relations and Social Dialogue for an Economy and a Society “4.0”. Si tratta di un lavoro che ha occupato circa due anni, con un focus specifico sul dialogo tra le parti sociali, le relazioni sindacali e la contrattazione collettiva per la regolamentazione e l’implementazione di smart working (e telelavoro) e programmi di acquisizione delle competenze digitali e re-skilling di lavoratori e lavoratrici.

Le parti sociali fanno squadra

Aspetto non di poco conto, il progetto si è occupato in particolare del contesto delle aziende manifatturiere, e specificamente metalmeccaniche: non quindi del terziario dove lo smart working e la formazione al digitale dovrebbero (il condizionale è d’obbligo) essere patrimonio comune in molte aziende, soprattutto dopo l’accelerata impressa dai lock-down, ma piuttosto in un settore che si avvale in massima parte di mansioni difficilmente remotizzabili (almeno nel breve periodo) e che per certi versi sconta una sensibilità variabile a queste tematiche.

Uno dei pregi del progetto IRESDES 4.0 è stato quello di coinvolgere, da protagonisti, sia rappresentanti del mondo “datoriale” (termine a mio avviso problematico e degno di una riflessione a parte) che sindacati. Nello specifico, a livello italiano sono stati coinvolti da una parte Confimi Industria e dall’altra FIM-CISL Veneto, mentre a livello europeo c’è stata la partecipazione della European Digital SME Alliance, organizzazione che riunisce circa 30 sigle di categoria nazionali e regionali nel mondo della Micro, Piccola e Media Impresa del settore digitale.
L’attività di ricerca e sintesi è stata curata da ADAPT, associazione senza fini di lucro fondata da Marco Biagi nel 2000 per promuovere, in una ottica internazionale e comparata, studi e ricerche sul diritto del lavoro e sulle relazioni industriali.

Re-skilling e smart working: a che punto siamo?

Nella ricerca preliminare sullo stato dell’arte, dal titolo Report on the state-of-the-art regarding smart working and digital skills development in social dialogue practices and CLAs, Diletta Porcheddu e Margherita Roiatti, ricercatrici ADAPT, offrono una panoramica su 1) cambiamenti demografici in atto in Europa; 2) accelerata sulla digitalizzazione impressa dal Covid-19; 3) stato della digitalizzazione nelle MPMI (con particolare attenzione a telelavoro, smart working e digital skills); 4) iniziative più o meno di successo già messe in atto dalle parti sociali; 5) recepimento delle novità imposte dalla digitalizzazione alla contrattazione collettiva.

Per quanto riguarda i cambiamenti demografici, le informazioni contenute nel report, derivate in gran parte dall’Ageing Report 2021 della Commissione Europea, prospettano da qui al 2070 un incremento relativo del 9,6% di forza lavoro in età compresa tra i 55 e i 64 anni, a fronte di una contrazione del 16% della forza lavoro totale, con un impatto diretto sulla previdenza e uno indiretto sulle competenze di chi lavora e sulla loro rilevanza a fronte di mutamenti sempre più rapidi.

Mutamenti che già oggi identificano un’Europa a due velocità, come evidenziato dal Digital Economy and Society Index 2021. Due velocità che si riflettono lungo diverse dimensioni: grandi aziende più innovative rispetto alle MPMI, soprattutto per quanta riguarda la formazione al digitale (68% vs. 18%); 4 adulti su 10 (e una persona su tre) in Europa carenti sulle competenze digitali di base; paesi come Belgio e Irlanda che vantano una percentuale elevata di aziende che impiegano professionisti delle tecnologie dell’informazione (30%) contro la media UE (19%) e quella italiana (13%).

I piccoli e i grandi

Sul divario tra grandi aziende e MPMI l’analisi delle ricercatrici sintetizza diverse possibili concause: costo potenzialmente elevato delle tecnologie digitali; incertezze relative alla sicurezza dei dati; assenza di propensione al rischio da parte del management; scarsa consapevolezza dei benefici delle tecnologie digitali o della capacità dei vertici aziendali di farne un uso produttivo, oltre che un basso livello di competenze digitali tra datori, manager e addetti delle MPMI.
Quest’ultimo aspetto, a sua volta, sembra essere motivato dalla carenza di un’educazione e formazione professionale che sia modellata sulle specificità e sui bisogni delle aziende più piccole. Nel contesto italiano, in particolare, si evidenzia una propensione all’investimento in formazione inferiore rispetto alla media UE. Tutto questo in un comparto, quello manifatturiero, che nella sua versione 4.0 richiede grandi investimenti in digitalizzazione per l’automazione dei processi e l’interconnessione dei macchinari.

Anche per lo smart working e il telelavoro, termini che oggi assumono significati diversi tra loro, il report IRESDES 4.0 evidenzia un divario a livello europeo tra aziende di grandi dimensioni e MPMI, a partire dal 2002, anno in cui venne pubblicato l’Accordo Quadro Europeo sul Telelavoro. Le cause sarebbero ancora una volta da ricercare nei costi (che comunque negli anni sono diminuiti notevolmente), ma anche nel basso livello di fiducia nei confronti di impiegate e impiegati, e nella limitata capacità di alcune MPMI di gestire il cambiamento.

La ricerca di ADAPT si conclude con l’analisi di alcuni contratti formativi stipulati nel settore metalmeccanico italiano (sia tra aziende e personale, che a livello territoriale), prerequisito del recente Fondo Nuove Competenze), oltre che di contratti che regolano il lavoro remoto, sia come modalità di collaborazione continuativa, che come misura emergenziale legata al Covid-19.

Raccomandazioni a Stati e Commissione

Oltre ai già di per sé interessanti spunti di riflessione che emergono dal rapporto IRESDES 4.0, le parti interessate del progetto hanno sintetizzato una serie di raccomandazioni a Stati, Commissione e Parti sociali.

Per quanto riguarda gli Stati membri, risultano chiave la collaborazione e il dialogo con le parti sociali sia per lo stanziamento delle risorse per la formazione, in vista dei target europei per il 2030, che per l’avvio di programmi di ripresa e resilienza che garantiscano l’accesso alla formazione al maggior numero di persone possibile, che per la revisione delle competenze digitali di base e specialistiche, che, infine, per facilitare l’implementazione del lavoro da remoto. Fondamentali sono considerati anche rilevamenti statistici frequenti e possibilmente esaustivi sul livello di digitalizzazione delle MPMI. Si raccomanda poi una sburocratizzazione delle norme che regolano il lavoro da remoto.

Alla Commissione Europea si raccomanda invece la promozione dello sviluppo delle competenze digitali, sempre in dialogo con gli stati membri, tramite i numerosi strumenti già a disposizione e tenendo conto anche della cornice che vede nel 2023 l’Anno europeo delle competenze. A ciò si affianca la richiesta di investimenti maggiori per la sovranità digitale, e ad Eurostat un incremento delle rilevazioni statistiche.

Il ruolo chiave delle parti sociali

Il più delle raccomandazioni sono però rivolte alle parti sociali, nazionali e territoriali.
Alle parti sociali nazionali si chiede di promuovere congiuntamente l’accesso alla formazione sul digitale, incrementando anche l’utilizzo dei fondi europei e l’attenzione alle buone pratiche diffuse sul continente; promuovere l’uso di strumenti didattici ibridi, accompagnati da una certificazione delle competenze valida a livello europeo, e, d’intesa con i governi, la costituzione di fondi per la formazione e l’innovazione.
Le parti dovrebbero, ancora, occuparsi di anticipare le nuove competenze richieste dal mondo del lavoro, e definire una formazione di qualità sia per chi lavora che per chi è in cerca di occupazione; coinvolgere la rappresentanza sindacale aziendale e le MPMI, informandole sugli strumenti a disposizione per la crescita delle competenze e coinvolgendole nella progettazione dei percorsi formativi; occuparsi del trattamento dei dati nei rapporti di lavoro.

Alle associazioni datoriali si chiede di sensibilizzare le aziende sull’importanza dell’innovazione digitale, e di mettere a terra iniziative di condivisione delle buone pratiche, anche peer-to-peer.
Si ritiene inoltre fondamentale che il dialogo sociale sia al cuore della contrattazione collettiva su smart working e lavoro da remoto, anche per valutare adeguatamente i rischi per la salute fisica e psichica di questi nuovi scenari.

Stringendo il campo a livello locale, si nota come la conoscenza che le parti sociali locali hanno delle carenze formative e professionali del territorio possa informare l’attuazione di interventi specifici. E’ posto l’accento sul ruolo del dialogo preventivo tra imprese e lavoratori nella definizione degli accordi, nonché la possibilità per le parti sociali di informare e fornire modelli anche alle MPMI prive di organi di rappresentanza di lavoratori e lavoratrici.

Infine, l’orizzonte si amplia al contesto europeo, dove si auspica una maggiore partecipazione delle parti sociali alle iniziative esistenti, anche per sfruttare gli strumenti e le risorse già sviluppati, incrementando la mobilità delle figure professionali e il riconoscimento delle competenze.

Le priorità, secondo le parti sociali

La conferenza finale di IRESDES 4.0 ha offerto un momento di confronto sul ruolo del dialogo tra le parti sociali per l’implementazione delle raccomandazioni e, più in generale, della transizione digitale in Europa. In due panel moderati da Antonio Grasso di European Digital SME Alliance, si sono confrontati rappresentanti delle parti sociali, portatori di interesse ed esperti.

Nel primo panel, Davide Licini Paoni per Confimi Bergamo sottolinea come alcune sfide urgenti riguardino 1) il vincolare alcune ore di formazione delle 24 triennali previste dal contratto metalmeccanici alla formazione digitale, 2) considerare il fatto che il lavoro da remoto sia ormai un benefit richiesto, da estendere quindi possibilmente anche alle figure tecniche e ibride, con particolare riferimento a chi si occupa di progettazione, con l’annessa necessaria revisione delle mansioni per obiettivi. Prosegue affermando come sia richiesto uno “scatto culturale per la sopravvivenza”, da concretizzarsi tramite la testimonianza di imprenditori che hanno già avviato questi percorsi (“innovation by indivia”); la capacità di comunicare le esperienze positive; l’avvio di collaborazioni intersettoriali e tra territori.

Massimiliano Nobis, segretario generale FIM-CISL Nazionale, invita le parti sociali ad attenzionare i fattori esogeni che condizionano l’innovazione; chiede norme efficaci ma leggère; ribadisce l’importanza della contrattazione, soprattutto su scala territoriale, dell’attenzione agli aspetti legati alla salute nello smart working e alla nuova organizzazione del lavoro. Ricorda poi che per molte persone siamo ancora all’”anno zero” sulle skill digitali, e che quindi è necessaria una “formazione di massa” sulle competenze di base e sulla certificazione delle stesse.

Nicola Panarella, segretario generale FIM-CISL Veneto, punta invece l’attenzione sulla mancanza di penetrazione delle parti sociali nelle MPMI, rimarcando anche come in alcuni settori la formazione unica non sia appropriata. Invita quindi le aziende a fornire i piani formativi, completi di temi e modi, da discutere a livello aziendale e territoriale.

Diletta Porcheddu, ricercatrice ADAPT, insiste sulla sensibilizzazione delle parti sociali, che reputa difficile all’interno delle MPMI; sull’insegnare ad utilizzare i fondi tramite la disseminazione di buone pratiche; sulla necessità di introdurre vincoli sui fondi (ad esempio la partecipazione obbligata delle parti sociali); sull’importanza del peer-to-peer learning.

Justina Bieliauskaite, Projects Director per European DIGITAL SME Alliance, si concentra sull’importanza della sovranità digitale in ottica di resilienza; sulla misurazione e sulla diffusione della conoscenza degli strumenti (finanziamenti, Pact for Skills, Digital Europe, Resilience Plan).

Le priorità, secondo gli osservatori

Nel secondo panel, Antonio Grasso amplia lo sguardo al contesto europeo coinvolgendo diversi osservatori privilegiati.

Anja Meierkord, Labour Market Economist presso l’OCSE/OECD, rivela che solo il 18% dei contratti collettivi a livello europeo trattano esplicitamente della formazione. Da questo punto di vista, l’Italia costituisce un esempio positivo. Meierkord menziona anche il Global Deal, iniziativa OCSE finalizzata all’implementazione del dialogo sociale e della crescita inclusiva.

Giuseppe Guerini, membro dell’European Economic and Social Committee (EESC), presidente CECOP (European confederation of industrial and service cooperatives) e Confcooperative Bergamo, estende il ragionamento al mondo dell’impresa sociale dove, afferma, nelle cooperative strutturate la contrattazione collettiva è comparabile a quella di altri settori, su tutti l’esempio della basca Mondragon Corporation. Meno mature da questo punto di vista sono solitamente le cooperative di servizi e sociali, ad oggi maggiormente finalizzate all’emersione dall’informalità, per esempio nel lavoro di cura. Speciale infine è il caso delle cooperative di lavoro, dove il dialogo sociale è parte integrante della governance.
Guerini introduce poi il tema dei lavoratori che non hanno copertura contrattuale (tra cui anche le “partite IVA”) per cui, sostiene, l’organizzazione in cooperativa può rappresentare un interessante strumento; segnala l’EESC come “casa del dialogo sociale” il cui compito è elaborare pareri sulla legislazione europea, e si auspica che venga trovata una via europea alla digitalizzazione (rispetto a quelle di USA e Cina). Reputa infine utile la costituzione di consorzi e cooperative finalizzati al mutualismo dei dati usati per l’A.I.

Isabelle Barthés, vicesegretaria generale della federazione sindacale IndustryAll Europe, sottolinea l’importanza della contrattazione collettiva per bilanciare rischi e opportunità, e introduce altri temi caldi: l’essere umano in controllo dell’intelligenza artificiale e la dignità umana rispetto alla sorveglianza. Si augura lo sviluppo di strumenti inclusivi per la gestione del cambiamento; un’estensione della contrattazione collettiva grazie all’introduzione del salario minimo; maggiore comunicazione tra le parti sociali.

Enrico Giovannini, già Ministro del Lavoro e delle Politche Sociali e direttore scientifico di ASviS, richiama infine il quadro complessivo, costituito dalla transizione digitale ed ecologica, e la necessità di guardare al futuro del lavoro al di là dei bisogni formativi attuali. Cita il report “Future of Work” (2019) dell’International Labour Organization (ILO), dove si sostiene che la formazione deve essere considerata un investimento, non un costo, e il Life-Long Learning come parte della contrattazione collettiva, per via della responsabilità sociale delle imprese.
Giovannini mette poi l’attenzione sulla formazione dei consumatori del digitale, come mercati potenziali per le imprese innovative.
Spostandosi al tema della sostenibilità, cita l’esempio positivo del Regno Unito, dove sono stati costituiti tavoli di confronto che tengano conto delle diverse dimensioni del fenomeno simultaneamente. Promuove infine un approccio che definisce di “resilienza trasformativa”.

Domenico Galìa, presidente di Confimi Digitale, chiude in dialogo con Nicola Panarella di FIM CISL Veneto che, sottolineando la fiducia e collaborazione reciproca, auspica un passo ulteriore su temi collegati, come la settimana corta e la condivisione delle buone pratiche.
Galìa dal canto suo sottolinea l’aspetto di rivoluzione culturale dello smart working, che richiede un nuovo modello di relazioni industriali e stravolge anche il paradigma della competizione, con risvolti quali l’attrattività di talenti e competenze, un mercato del lavoro europeo, il passaggio a modelli organizzativi innovativi e più flessibili. Ricorda infine il contesto della nuova globalizzazione a macroaree che si sta costituendo, nonché le sfide europee dell’indipendenza energetica, digitale e delle materie prime nel quadro della transizione ecologica, e auspica una continuazione del progetto IRESDES perché si allarghi alle tematiche ESG.

Spunti per un’agenda laburista

Da questa panoramica, necessariamente sintetica ma ricca di spunti, dovrebbe risultare evidente come i due temi delle digital skills e dello smart working, assieme agli altri qui menzionati solo a latere, ma intrinsecamente uniti (transizione eco-digitale, governance dell’intelligenza artificiale ecc.) dovrebbero non solo rientrare, ma essere al centro di un’agenda laburista di respiro europeo: da come verranno governati dipenderà indubbiamente parte della sorte di aziende e lavoratori nel futuro a breve e medio termine. Da dove partire? Magari dall’Innovation by invidia: mappatura delle buone pratiche e disseminazione tra pari.

Sito del progetto: iresdes40.eu/

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